“Rifarei tutto da capo“. Condannato a 142 anni carcere per aver salvato 33 vite umane. Quando Hanad Abdi Mohammed, somalo, nel dicembre 2020 sale sul barcone che lo deve trasportare dalla costa turca in Grecia non immagina che cosa sta per succedergli. “Avevo paura di annegare, di morire. Ma non pensavo di finire in una cella“. Al largo dell’isola di Lesbo i trafficanti turchi – come spesso accade – abbandonano il barcone e lo lasciano ai migranti. Così Mohammed, senza pensarci due minuti, afferra il timone e si mette alla guida. Ha paura ma è determinato a salvare se stesso e i suoi compagni di viaggio.
Poi, però, una volta arrivato a terra, Mohammed viene arrestato. L’accusa è di traffico internazionale di esseri umani. E in primo grado viene condannato a 142 anni di cella. “È una sentenza ingiusta e crudele“, spiega il deputato greco di Syriza Stelios Kouloglou che domenica ha fatto visita a Mohammed in carcere sull’isola di Chios insieme a una delegazione di eurodeputati. “Nonostante la situazione, l’ho trovato calmo e lucido“, spiega ancora.
Per arrivare a questa sentenza “i giudici si sono basati su una legge greca del 2014, articolo 30 della legge 4251/2014 – spiega ancora Kouloglou – chi prende il timone è considerato un contrabbandiere e riceve una condanna a 15 anni per persona trasportata e l’ergastolo per ogni persona morta durante il viaggio“. Ma non solo. “All’imputato sono stati forniti inizialmente avvocati d’ufficio che non hanno studiato il caso e non gli è stata fornita un’appropriata assistenza nella traduzione durante gli interrogatori“, denuncia Kouloglou. Così, dopo un’udienza di circa quarantacinque minuti e di un’ora e mezza di Camera, arriva il verdetto. Uno choc.
Il caso di Mohammad non è l’unico. Secondo un rapporto pubblicato a novembre da Border Monitoring, una ong tedesca, sono stati identificati almeno 48 casi solo a Chios e Lesbo, dove “gli imputati non hanno tratto alcun profitto dal business del contrabbando“. Nella stessa prigione di Chios sono rinchiusi due afghani, di 24 e 26 anni, entrambi condannati a 50 anni sulla base della stessa accusa. “Uno di loro ha viaggiato con la moglie incinta e il figlio, nessun trafficante farebbe una cosa del genere“, dice Kouloglou.
E un uomo siriano di 28 anni è in prigione ad Atene dopo aver ricevuto una condanna a 52 anni ad aprile dopo aver attraversato la Turchia con sua moglie e tre figli, mentre un altro afghano è stato accusato per la morte del figlio durante la traversata provocata invece – secondo i testimoni – dallo speronamento della Guardia costiera greca. Una prassi comune, secondo le associazioni per i diritti umani. E proprio la condanna di Mohammad è stata aggravata dal fatto che due donne sono annegate in quella traversata. “Ma otto migranti che erano sulla barca hanno testimoniato come il trafficante turco che li trasportava avesse abbandonato l’imbarcazione dopo che una nave della Guardia costiera turca l’ha spinta a entrare in acque greche”, spiega ancora.
Il meccanismo dunque è chiaro. Accusare i migranti per cercare di fermare il flusso. Una deterrenza che “oltre che a violare i diritti umani non funziona“, concordano gli esperti. La pratica di processare i migranti per traffico di migranti è iniziata nel periodo della crisi del 2015-2016, quando più di 1 milione di rifugiati hanno attraversato la Grecia.
“E si è intensificata da quando la Turchia all’inizio del 2019 ha smesso di far rispettare un accordo raggiunto con Bruxelles nel 2016 per fermare il flusso e rimpatriare tutti coloro che riescono a entrare illegalmente in Grecia che non hanno diritto alla protezione dell’UE“, dicono alcuni osservatori. Inoltre “è molto difficile per la Grecia, ma anche per l’UE, cooperare con la Turchia per reprimere il traffico”. La Grecia, dal canto suo, si difende, affermando che i suoi tribunali sono equi e che ha l’obbligo di sorvegliare i propri confini.
Negli ultimi due anni, secondo Dimitris Choulis e Alexandros Georgoulis, gli avvocati che difendono Mohammad e altri come lui, le accuse vengono mosse senza prove reali, come prova il fatto che un uomo afghano sia sotto processo contrabbando semplicemente perché aveva il Gps aperto sul suo cellulare durante un attraversamento. Ma nei confronti dei veri trafficanti non viene fatto nulla. Con il risultato che nulla cambia. Perché, come ha sintetizzato al New York Times Clio Papapadoleon, un importante avvocato per i diritti umani, “processare un rifugiato come contrabbandiere significa trattare un piccolo criminale per droga come Escobar. E forse anche peggio“.
Marta Serafini
da il Corriere della Sera