Le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno disvelato alla collettività la brutalità delle prigioni. Eppure la disumanità del carcere non si rivela solo e sempre con quella forza bruta che si è espressa contro i detenuti del reparto Nilo, ma spesso si palesa con piccoli episodi di negazione quotidiana di diritti, subdolamente umiliando chi si trova ristretto.
Natascia Savio si trova dal 2019, senza soluzione di continuità, in stato di custodia cautelare. È imputata in due diversi processi, uno incardinato a Torino (per il quale è indagata a piede libero), l’altro a Genova. La misura cautelare in atto è solo per quest’ultimo procedimento.
Sebbene sia ancora sotto carcerazione preventiva, la trafila di Natascia nelle carceri italiane è stata tortuosa: ristretta prima a Rebibbia, poi a L’Aquila e Piacenza, infine, senza un apparente e utile motivo, trasferita a Santa Maria Capua Vetere, nonostante i suoi processi e i suoi affetti siano tutti tra Genova e Torino.
A Santa Maria ha trascorso il suo periodo di detenzione in una situazione di isolamento dovuto all’emergenza Covid e gli 850 km che la separavano dalla sede dei suoi processi e dalla sua famiglia hanno, di fatto, impedito ogni contatto che possa ritenersi degno per un individuo in attesa di giudizio col suo avvocato difensore e con la sua famiglia. In particolare, Natascia, dal suo trasferimento a Santa Maria Capua Vetere, ha potuto confrontarsi col difensore solo per dieci minuti una volta al mese.
I due processi che la vedono imputata hanno un calendario fitto di udienze e, per le accuse mosse, necessitano di un continuo e costante confronto col difensore. Frequenti quindi sono gli spostamenti per raggiungere le sedi processuali. Per la prima udienza del processo di Torino, Natascia ha affrontato un viaggio di venti ore per presenziare a un’udienza di circa venti minuti, mentre per le successive udienze è stata temporaneamente trasferita a Vigevano, sottoposta a isolamento per via del Covid e dopo circa quindici giorni nuovamente riportata a Santa Maria Capua Vetere senza possibilità di fare alcun colloquio con i suoi familiari perché ne ha avuto la possibilità quando ormai era di nuovo in viaggio per ritornare verso l’istituto campano.
I continui trasferimenti hanno di fatto prolungato i suoi periodi di quarantena, addirittura impedendole l’ora d’aria al suo ultimo ingresso a Santa Maria Capua Vetere, comprimendo sempre più la sua permanenza nell’istituto di pena.
Dopo il temporaneo trasferimento a Vigevano ha dovuto, a Santa Maria, rifare tutto: richiesta per avere l’orologio, richiesta per avere la scheda telefonica e consentirle di sentire il difensore e la famiglia, ecc. Ogni singolo evento doveva essere concesso dall’istituzione, rendendo la già complessa vita carceraria, se possibile ancora più dura. In tutti i numerosi trasferimenti ha avuto difficoltà a ritrovare i suoi effetti personali, i soldi che le necessitavano per l’acquisto dei beni quotidiani, tutto recuperato solo dopo qualche giorno e non senza difficoltà.
Tutte queste umilianti privazioni hanno indotto Natascia a entrare in sciopero della fame. Sono ormai venti giorni che questo è l’unico modo per dar voce ai suoi diritti, l’unico modo per andare al di là delle mura del carcere facendo sentire la sua voce.
Eppure l’ordinamento penitenziario parla chiaro, all’art. 42: “I trasferimenti sono disposti solo per motivi gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari”. Appare chiaro che anche per la legge bisogna considerare primario il criterio della vicinanza alla famiglia o al riferimento sociale, al fine di non applicare un trattamento disumanizzante che tende ad annientare la persona detenuta.
È inspiegabile come un imputato, detenuto in via preventiva e cautelare, possa essere sottoposto a un trattamento tale da ostacolare la sua difesa processuale. Anche questa è forza bruta che si dispiega contro ogni ragione su chi si trova ristretto. Non è accettabile che un tale sistema porti un singolo a optare per uno sciopero della fame affinché vengano quantomeno ascoltate le sue ragioni.
Sperando che quanto sta accadendo in questi giorni nel dibattito pubblico sulle carceri faccia aprire gli occhi anche sui casi come quello di Natascia Savio, affamata di dignità in un paese che, in tema di diritti dei detenuti, lascia sempre il piatto vuoto. (donato barbato / antonella distefano)
Da https://napolimonitor.it
Da Radio Onda D’Urto l’intervista all’avvocato di Natascia Savio, Claudio Novaro.Ascolta o Scarica.