Di seguito un articolo di
Al di là dei proclami, nulla è stato fatto per le carceri
Impreparati allora, impreparati adesso, con prigioni che con la pandemia sono diventate delle isole tipo Alcatraz
Se poco o nulla è stato fatto per aumentare i posti letto negli ospedali e nelle terapie intensive o per assumere medici e infermieri falcidiati negli anni dalle politiche dei tagli e dalle logiche del profitto là dove il profitto non dovrebbe essere di casa, ancora meno è stato fatto nelle carceri: non sono bastate le rivolte, ancora meno sono bastati i tredici morti di marzo e i tre morti da Covid in primavera. Qualche tenda mobile davanti alle carceri, vetri divisori, colloqui Skype o Zoom e la farsa della liberazione di alcune migliaia di detenuti (subito attaccata e giudicata come liberazione dei boss mafiosi da tanti media, da pezzi di centro destra, dai consueti giustizialisti) sono tutto quello che è stato capace di partorire il nostro esecutivo.
Impreparati allora, impreparati adesso, con carceri diventate delle isole tipo Alcatraz (vietate persino le attività trattamentali) ecco che ci troviamo a contare il primo detenuto morto da Covid in questa seconda ondata (è successo nel carcere di Livorno dove la vittima è un ultraottantenne con patologie pregresse, affetto da ipertensione arteriosa, fibrillazione atriale, calcolosi e varie cisti epatiche), i primi contagiati tra i detenuti (145, due dei quali in terapia intensiva) e tra il personale penitenziario (199).
Un’emergenza nell’emergenza che anche questa volta viene affrontata con i soliti proclami e le solite fake news: “5 mila detenuti con pene sotto i 18 mesi a casa ai domiciliari grazie ai braccialetti elettronici”. Peccato che i braccialetti elettronici non ci sono, peccato che per uscire dal carcere quei 5 mila non devono avere avuto rapporti disciplinari (e per avere un rapporto basta ad esempio contestare un agente) e non avere compiuto reati ostativi (4 bis). Proclami inutili e di facciata: c’è già la 199 (peraltro applicata dai magistrati di sorveglianza con tantissime difficoltà) che prevede che coloro i quali hanno da scontare una pena sotto i 18 mesi possano essere mandati ai domiciliari.
Insomma, proclami e fake news contraddetti dalla realtà. Basta l’esempio accaduto due giorni fa a Chieti, ma sono certo che un episodio analoga possa essere accaduto in qualunque altro istituto penitenziario: ore 11, un’auto dei carabinieri si ferma all’ingresso, viene fatta scendere una persona in manette, questa persona viene consegnata alla matricola per le procedure di rito (identificazione, impronte, foto, denudamento, perquisizione e invio in cella). E sapete chi era? Era un uomo con una condanna alla pena del carcere di 4 mesi. Vi sembra normale in questi tempi? Vi sembra logico non aver applicato una misura diversa dal carcere per un individuo che ha compiuto un reato punibile con 4 mesi? Eppure è scritto chiaro nella nostra Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione. Pene…non pena del carcere è scritto all’articolo 27, terzo comma.
Parlo ancora per conoscenza diretta: sempre due giorni fa in carcere a Chieti, in un veloce giro tra i detenuti che seguono il laboratorio di Voci di dentro e di In carta libera (qui l’ultimo numero della rivista https://ita.calameo.com/read/0003421545e99ba86a1a6 ) scopro che c’è un ragazzo che deve scontare ancora 5 mesi dopo aver fatto 4 anni, un altro deve fare ancora due mesi dopo essersi fatto un anno e 4 mesi e un terzo ha già fatto 5 anni e gli resta un anno e mezzo. Domani usciranno, ho pensato. La loro risposta: “Nessuno di noi potrà uscire, per una cosa o per un’altra, per una sintesi che non viene chiusa o perché manca la relazione della psicologa…o per altro, alla fine resteremo qui, dimenticati, soprattutto soli e con il concreto rischio di prenderci il virus, di contagiarci e contagiare gli altri”.
Mi sono andato a guardare le statistiche pubblicate sul sito del ministero della Giustizia. Ho scoperto così che nella stessa situazione che ho verificato e visto con i miei occhi si trovano migliaia di persone in tutti i 188 istituti del nostro Paese: al 30 giugno di quest’anno si trovano detenuti 18.856 persone che hanno da scontare ancora tre anni di carcere, di questi 6.883 hanno un residuo che è inferiore a un anno, 6.850 fra uno e due anni e 5.173 con una pena ancora da scontare tra i due e i tre anni.
Ecco, se davvero si volesse fare qualcosa, ridurre il sovraffollamento e fare spazio per aree detentive per i detenuti scoperti positivi, si potrebbe agire veramente con i fatti, senza delegare ai giudici scelte che sono prima di tutto scelte di chi fa le leggi, e mandare sul serio a casa, ai domiciliari, quelle 18.856 persone che hanno scontato gran parte della pena e poi i malati e gli anziani.
Facendo sul serio, cioè con una legge e non propagandando ai giornali le solite fake per paura, per incapacità di uscire dalla logica della punizione a tutti i costi, della logica della vendetta, detto in altri termini. Quella vendetta che ha fatto sì, ed è solo un esempio, che questa estate venisse incarcerato (ancora a Chieti) per il furto di una tronchese un uomo di 44 anni, con gravi problemi di salute, ulcere sanguinolente alle gambe per trombosi, invalido, costretto un giorno sì e un giorno no ad essere portato in ospedale per cure specifiche, addirittura tossicodipendente al punto che ogni giorno – come mi dicono i suoi compagni di cella – si prende 100 ml di metadone, 150 di rivotril, oltre ad altri farmaci al bisogno. Quella logica della vendetta che tiene in carcere in attesa di giudizio (innocenti fino a prova contraria) oltre il 30 per cento delle persone detenute. E poi una cinquantina di mamme con i loro figli sotto i tre anni.
E questo in una situazione di emergenza come quella attuale. Ignorando le paure dei detenuti e il loro diritto alla salute che non può essere da meno di quello delle persone libere. Disattendendo le preoccupazioni degli stessi agenti di polizia penitenziaria e dei direttori delle carceri.
Riporto qui una storia raccontata da Riccardo Radi nel suo filodiritto: “Nell’estate del 2003, un ragazzo tossicodipendente di 22 anni commette tre rapine armato di un taglierino. All’epoca dei fatti, vive per strada di espedienti e reati per procurarsi i soldi per la droga. Viene arrestato e dopo circa 5 mesi liberato in attesa di giudizio. Nel maggio del 2006, il Gup del tribunale di Roma lo rinvia a giudizio: la prima udienza è fissata per il 19 settembre 2066. Il processo, dopo numerose udienze e rinvii, si conclude con una sentenza il 7 luglio 2014: sono trascorsi 8 anni dall’inizio del processo e 11 anni dai fatti. Viene interposto appello, la Corte di appello di Roma pronuncia la sentenza il 16 febbraio 2018, condanna ad anni 5 di reclusione per una delle rapine ed assoluzione per le altre due in contestazione. La sentenza diviene definitiva nel febbraio del 2020, a distanza di 17 anni dalla data di commissione del reato. Il ragazzo di allora è oramai un uomo maturo e viene arrestato e condotto in carcere per scontare la sua pena. Quest’uomo oggi è un’altra persona, ha risolto i suoi problemi di tossicodipendenza, lavora come fornaio, è sposato con due figli minori e conduce una vita regolare. Per usare un lessico sociologico-giuridico, si è perfettamente “integrato nella comunità sociale”. Ma tutto ciò verrà vanificato e spazzato via, dal nostro sistema punitivo-afflittivo che prevede la pena quale unico strumento di risposta al reato”.
Proprio in questi giorni Laterza ha mandato in libreria “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” scritto a quattro mani dal presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, e dal giornalista del Corriere della Sera, Edoardo Vigna. Ho assistito alla presentazione fatta on line a cura della Camera penale di Padova. L’incontro lo trovate qui https://fb.watch/1r7xvyX-JL/ . Consiglio il libro, anche per uscire dalla vecchia idea, specie oggi in tempo di Covid, che il carcere serva a qualcosa. Dice bene Mauro Palma, garante dei detenuti: “La pena perde la funzione preventiva perché non ha capacità di intimidire, giacché porzioni di tempo da trascorrere nella reclusione sono soltanto segmenti periodici di vite segnate dalla marginalità sociale; perde la funzione di utilità sociale perché non rappresenta una effettiva tendenza rieducativa, in quanto non ricorre a quegli strumenti di modulazione dell’esecuzione che gradualmente avviino verso un diverso ritorno alla realtà sociale esterna; perde la stessa fisionomia retributiva, da molti attualmente auspicata e strillata come unica risposta al reato, perché in realtà si limita a una funzione simbolica volta a ottenere consenso politico e non a determinare effettiva capacità di riannodare quei fili che la commissione del reato stesso ha reciso”.
Mentre l’epidemia da Covid avanza, mentre fuori si invita, anzi si obbliga alla distanza, in cella si continuano a tenere anche dieci detenuti in una stanza.
“Amnistia e indulto” è lo slogan che comincia a girare tra le carceri. Lo faccio mio.